Detto: Tiempu ti scinnaru pirnacocchi. E’ fuori luogo pretendere di raccogliere albicocche a gennaio ( detto di questioni o cose fuori posto ).
Piròccula – i s. f., grossa mazza.
Pironi – piruni s. m., perno metallico sul quale ruota la trottola. V. curru.
Pironi, soprannome della famiglia Nigro.
Pirtosa – i s. f., asola del bottone.
Pirtusu – i s. m., buco, foro: lu pirtusu ti la chjai, il buco della serratura; no šta àcchju lu pirtusu, non trovo il buco.
Piru – peri s. m., albero e frutto del pero: piru reali, piru larieddu, piru mància e bbii, piru liccesi, tutte qualità di pero caratteristiche delle nostre zone; ti canoscu piru, so quanto pesi, quanto sei birbone; cussì no ni mintimu peri nta lu panaru, continuando così, risultati positivi non ne coglieremo mai; a ddo štamu? – sott’a ppiru, dove ci troviamo? – e chi lo sa.
Pisantezza s. f., pesantezza: tegnu na pisanrezza ti štòmucu, ho un peso allo stomaco. V. pisori, štiratura.
Pisara – i dal lat. pisatio = azione del battere, s. f., grossa pietra sagomata che, legata al cavallo tramite lu mangulu, veniva trascinata in cerchio sulle piante secche di legumi o graminacee, provocando la frantumazione delle bucce e la fuoruscita dei semi. V. pisari.
Pisaredda – i s. f., piccola piramide di terracotta, usata fin dall’epoca messapica, oggi reperto archeologico della nostra zona; veniva usata dalle tessitrici come peso ai bordi della tela ordita sul telaio.
Pisari – pisai – pisatu v. tr. e intr., pesare: sàcciu jù quantu pisa cuddu, so io quanto ( poco ) egli vale. Usato come v. tr., trebbiare, mondare granaglie e legumi dalla buccia che li contiene: mo ‘ma spicciatu ti métiri e di pisari, adesso abbiamo perso ogni possibilità di riuscita. V. pisara.
Pisata – i s. f., pesata.
Pisatura s. f., trebbiatura. V. pisara e pisari.
Pisaturu – i s. m., pestello: lu pisaturu ti lu murtali, il pestello del mortaio. V. pisara.
Pišciacchjaru – a agg., pl. inv. pišciacchjari, che piscia il letto. V. Santa Lucia.
Pišcialuru – i s. m., pescivendolo.
Pišciaòi s. f., tipo di erba. Come loc. avv. a pišciaòi: siminari a pišciaòi, lasciar cadere i semi in fila e a breve distanza uno dall’altro.
Pišciaredda – i s. f., il pene dei bimbi.
Pišciari – pisciai – pisciatu v. intr., pisciare: mo’ šta ppišci fori ti lu rinali, ora stai andando fuori dal seminato; uècchj pišciatu, occhio languido. Come v. tr. è usato nell’espressione lu šta pišcia la carta, vince ( alle carte ) in maniera spudorata. V. agnoni.
Nota. Sembrano passati secoli, eppure la pratica della pisatura era corrente fino a sessant’anni fa. Essa si svolgeva sull’aia, che solitamente insisteva appena fuori dall’abitato. Lì i contadini depositavano le piante di fave, ceci, piselli, fagioli appena spiantate, oppure la biada o il grano appena mietuti, per poi, una volta seccati, essere trebbiati. Pertanto le piante di legumi, solitamente in quantità modesta, venivano stese al sole, mentre i covoni di granaglie, in quantità più consistenti, venivano sistemati a pignoni o a meta. Prima che entrassero in funzione le macchine, il sistema di trebbiatura era quello antico e rudimentale della pisatura, ossia della battitura dei baccelli o delle spighe secchi per liberarne il contenuto. Le piccole quantità venivano battute a mano con un bastone; mentre per quantità più consistenti si ricorreva all’ausilio del cavallo che, trascinando la pisara sulle piante secche disposte a cerchio, le frantumava. A sua volta il cavallo correva tutt’intorno, guidato dal conduttore, che ruotava su se stesso al centro del cerchio.
L’operazione successiva consisteva nel sottrarre alla massa sbriciolata le bucce più grossolane. Infine i semi misti ad una buona dose di bucce polverizzate venivano intulati, ossia lasciati cadere da un crivello tenuto ad altezza d’uomo, affinché il vento facesse la sua parte: il risultato era che le bucce, spinte dal vento cadevano più in là, mentre i semi cadevano ai piedi dell’operatore.
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